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Così imparerete a respirare la pace

Parla sheikh Burhanuddin Hermann: tedesco, dopo l’incontro fatale con il maestro di un’antica scuola sufi gira il mondo per predicare il suo messaggio d’amore.

Burhanuddin Hermann (a sinistra) con sheikh Maulana Nazim, maestro dell’antica scuola sufi Naqshbandi.
Tedesco, 52 anni, sheikh Burhanuddin Hermann è sposato e ha sette figli.

Il richiamo dello spirito lo aveva portato ancora ragazzo dalla sua Germania in India, a Poona. Ma la ricerca è imprevedibile: secondo la tradizione non sei tu a trovare il maestro, è lui a trovare te. Come nella storia del rabbino di Cracovia che va fino a Praga in cerca di un tesoro visto in sogno e una volta là scopre che in realtà l’oro era nascosto sotto il focolare di casa sua, l’incontro fatale fu a Friburgo. Il destino aveva il volto di sheikh Maulana Nazim, maestro dell’antica scuola sufi Naqshbandi. Da noi lo si ricorda come il vecchio saggio musulmano che si fermò a parlare con papa Ratzinger in una strada di Cipro, nel 2010, oppure mentre riceve un barbuto Cat Stevens. Gli scettici e i nemici lo citano come il mistico che fece alcune profezie azzardate, come la caduta di tutti i regimi mediorientali nel 2011 e la loro sostituzione con un unico sultanato. Gli si attribuisce spesso l’affermazione, in seguito smentita, che Bush e Blair abbiano raggiunto la santità per la loro lotta contro i tiranni.

Davanti al maestro, l’emozione fu così forte che il futuro allievo svenne. Burhanuddin Hermann, come si chiama adesso, è diventato uno sheikh sufi e gira il mondo a diffondere il messaggio d’amore della sua confraternita. Cinquantadue anni, sposato, sette figli, lo abbiamo incontrato di passaggio a Torino.

Sheikh, perché i giovani con l’iPhone, che passano il tempo sui social media e vogliono tutto subito, dovrebbero interessarsi al sufismo?

«Ognuno nasce con un certo dovere, un certo compito e tutti hanno bisogno di sentirsi amati, di essere in pace con se stessi. Arriva sempre un momento nella vita, quando la pressione è molto alta, in cui si viene spinti in questa direzione. Molte discipline spirituali, tra le quali il sufismo, parlano di questo. Che cosa possiamo offrire ai giovani? Una via verso la pace interiore e la realizzazione di sé. Nel mondo esterno non c’è alcuna offerta, oggi meno che mai. La politica è complicata e corrotta. Nessuno capisce che cosa stia realmente accadendo. Siamo bombardati di informazioni, siamo in contatto con chiunque, ma ci manca la solidità, il senso dell’orientamento. Qualcosa che ci riporti a noi stessi».

Per diventare sufi bisogna essere musulmani?

«Direi che per diventare musulmano devi diventare sufi. Il Profeta Maometto, la pace sia su di Lui, compendia lo stato più elevato del sufismo, il suo cuore. Chi s’innamora di questa via non lo può ignorare. Se no è come se dicessi: ti amo, ma non amo la tua casa, i tuoi vestiti, non amo nulla di ciò che fai. Musulmano significa uno che si arrende. Come lo fai è un altro discorso. Noi non diciamo alla gente di diventare pazzi fanatici. L’Islam è come un diamante con molte sfaccettature, nessuno può dire: l’Islam sono io. Purtroppo le nazioni islamiche non hanno un unico leader. Per i cattolici avere un Papa è un grande vantaggio, specialmente con questo Pontefice che appare particolarmente ispirato. Se anche per l’Islam ci fosse una guida unica, un sultano, potrebbe dire a questi estremisti fanatici: voi non siete musulmani, non fate parte della nostra comunità».

Dunque un cristiano o un buddhista non può diventare sufi?

«I sufi capiscono quando uno non è nato nella tradizione islamica: ho visto casi di cristiani ottantenni che si sono avvicinati al nostro insegnamento perché si sono innamorati del maestro o dei nostri canti, o delle nostre preghiere. Non diciamo loro di abbandonare la Chiesa, in tal caso il sufismo diventa una specie di estensione. Anche se uno è giovane può continuare con la sua tradizione, dipende solo da lui. Noi non imponiamo niente. Si deve capire che Gesù e Maometto sono due profeti, che non sono in opposizione tra loro: uno conferma l’altro. Noi riconosciamo Gesù, nel Corano c’è una grande sura dedicata a Maria».

Perché serve un maestro?

«Se uno vuole capire di che cosa è ammalato deve andare da un medico. Ci sono cose che da soli non riusciamo a capire. Serve qualcuno che abbia superato gli ostacoli prima di te e conosca le insidie del cammino. Ma una guida non è qualcuno che prende le decisioni al posto tuo. Il maestro mostra chiaramente qual è la tua responsabilità, poi il lavoro spetta a te».

Sempre di più la scienza descrive l’uomo come una macchina biologica: siamo davvero capaci di scegliere liberamente?

«Molti pensano che con il pensiero si possa comprendere la vita. Il pensiero ha una funzione pratica: la sopravvivenza. Ma non serve pensare in continuazione per vivere. In un certo senso le cose della vita sono già scritte da sempre. Ma la stessa parte interpretata da George Clooney o da Tom Cruise è diversa. Allo stesso modo, ognuno di noi cambia nel corso del tempo: se la scelta sarà fatta da una persona diversa, si apriranno possibilità diverse. Niente avviene in modo lineare ma attraverso gradini successivi. La realtà è come l’universo, una sfera che si espande e si contrae. Ali, celebre sufi e compagno del Profeta, sia su di Lui la pace, diceva: “Credi nella bontà del tuo destino ed esso si realizzerà”. La fede è molto importante per arrivare a uno stato di espansione della coscienza in cui si comprendono molte cose, anche se non nel senso della scienza».

Come pregano i sufi?

«I sufi praticano diversi tipi di meditazione, ognuna con un obiettivo diverso, come quando si va in farmacia e si sceglie il farmaco più adatto per una certa esigenza. Una delle meditazioni più celebri, il Zikhr, è la ripetizione del nome di Dio, della professione di fede islamica o di certi passi del Corano. La ripetizione può essere silenziosa, parlata, cantata o danzata, ma sempre si accompagna alla consapevolezza del respiro. È il maestro a scegliere il Zikhr più adatto a te. Bisogna imparare a respirare la pace».

Perché non dovremmo avere paura della morte?

«La morte in sé non esiste, non c’è nulla che realmente sparisce. Il corpo cambia condizione e lo spirito cambia luogo e tempo della sua esperienza. Sono stato molto vicino alla morte: una volta in un incidente e l’altra per una malattia. Benché queste esperienze possano variare da persona a persona, posso dire che il senso del me rimane. Si perde la connessione con il corpo, che diventa come un vestito che si abbandona. Non voglio dire che si tratti di un passaggio facile, non è così. Affrontare l’ignoto spesso genera terrore. La consapevolezza della morte però è cruciale per farci capire che cosa è importante nella vita. Nella nostra tradizione ci si deve ricordare della morte cinque volte al giorno».