4) La solitudine nella folla (Khalwat dar anjuman)
Khalwat significa «ritiro». La tradizione dice che la perfezione non è esibire poteri miracolosi ma è sedersi in mezzo agli altri, vendere e comprare, sposarsi e avere figli, senza lasciare mai, neanche per un istante, la presenza divina.
Ecco «la solitudine nella folla»: significa essere esteriormente con la gente rimanendo interiormente con Dio.
Maulana una volta iniziò un discorso dicendo: «Siete soli. Anche se siete sposati, anche se siete circondati dalla gente, siete soli. Anche se siete con me, siete soli».
Siamo nati soli. È un punto fondamentale, difficile da accettare perché fin dalla nascita cerchiamo compagnia e continuiamo a farlo per tutta la vita. La fiamma di quella ricerca è in ognuno di noi, è il fulcro della nostra esistenza.
Poi finalmente troviamo qualcuno da amare, lo mettiamo al posto di Dio, ma dopo un po’ capiamo che avere un compagno non è la risposta. Risvegliarsi da questo è un processo lungo e doloroso.
È necessario superare l’illusione di non essere completi e la convinzione di aver bisogno dell’altra metà per esserlo. Abbiamo questa sensazione perché nascondiamo a noi stessi quella parte che, pur essendo dentro di noi, cerchiamo nell’altro.
Il Sufismo non richiede l’ascetismo. Il derviscio vive una vita normale, lavora ed ha famiglia, ma interiormente è sempre consapevole del respiro, ascolta il battito del proprio cuore, lascia che lo dhikr entri in armonia con il suo ritmo interiore e partecipa così allo stesso tempo ad un mondo parallelo di pura consapevolezza.
Grazie alla pratica, il discepolo avverte che la situazione della propria esistenza appare più semplice. Ciò non accade perché le circostanze migliorano, anzi, di fatto spesso peggiorano, ma solo perché ora è più presente a se stesso e quindi meno coinvolto nelle contingenze mutevoli del mondo circostante.
Burhanuddin Herrmann, “IL SUFISMO, Mistica, Spiritualità e Pratica”, 2° edizione, Milano 2015